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Luogo: Villa Durazzo Pallavicini - Via Ignazio Pallavicini, 13, 16155 Genova GE

Questo luogo appartiene al gruppo:
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Regione:
Liguria


Il GIARDINO ESOTERICO DI VILLA DURAZZO PALLAVICINI


Il giardino esoterico

La tradizione di giardini dalle complesse simbologie massonico-esoteriche, come il giardino Isabella a Radicofani (SI) o quello di Villa Vigodarzere a Saonara (PD) trova uno dei suoi esemplari più compiuti a Genova-Pegli, dove la Villa Durazzo Pallavicini, oltre ad accogliere il museo archeologico cittadino (meritevole di una trattazione a sé stante) presenta uno dei parchi più affascinanti d’Italia, giustamente premiato quest’anno con il titolo di “Giardino più bello d’Italia”.

Questo non solo per la straordinaria varietà del suo patrimonio botanico, ma anche perché una sua visita comporta l’immersione in un intenso percorso esoterico-iniziatico, così come fu concepito, tra il 1840 e il 1846, dal suo creatore, Ignazio Alessandro Pallavicini (1800-1871)

Alessandro Pallavicini, un nobile amante dell'architettura
Nato “casualmente” a Milano, come lui stesso era solito dichiarare, Pallavicini era in realtà esponente di una delle più importanti famiglie di Genova, da sempre attiva politicamente nel promuovere le trasformazioni storiche della città. Egli stesso fu un ardente risorgimentalista: aderì inoltre ai locali circoli massonici e ricoprì diverse cariche pubbliche cittadine, come quella di Decurione e di consigliere provinciale, presidente dell’Accademia di Belle Arti e del teatro Carlo Felice, per essere infine nominato dal re Vittorio Emanuele II Senatore a Vita nel 1848.


Villa Durazzo Pallavicini

Ebbe inoltre l’intuito di valorizzare la cittadina di Pegli mediante la promozione del turismo: per questo promosse la realizzazione di alcune opere ancora oggi visibili, come la stazione ferroviaria, l’ex hotel Michel e il Municipio, sorti tutti su terreni di sua proprietà.
Il suo nome resta però indissolubilmente legato alla omonima villa e ai suoi incredibili giardini, i quali, tra alterne vicende, si sono mantenuti intatti fino ai giorni nostri.

La storia del giardino

Il complesso su cui sarebbero sorti apparteneva originariamente a Giovanni Battista Grimaldi (1673-1757), che fu Doge di Genova tra il 1752 e il 1754, per poi passare alla marchesa Clelia Durazzo (1760-1837), prozia di Alessandro, sul finire del XVIII secolo. Si deve a quest’ultima, grande studiosa di piante, l’idea di realizzare nel parco un importante orto botanico, orto che ancora oggi è visibile all’interno del complesso e che le è stato successivamente intitolato.

Non avendo avuto figli, alla sua morte Alessandro ne rilevò l’intera proprietà, liquidando gli altri eredi,  con il chiaro intento di andare ben oltre il progetto naturalistico della marchesa.

Risentendo delle idee della Massoneria, volle infatti realizzare per i suoi ospiti un percorso dalle forti valenze simboliche, nel quale i visitatori potessero immergersi e diventare protagonisti di un vero e proprio spettacolo teatrale, dal quale uscire poi rigenerati e arricchiti di una nuova consapevolezza del mondo.

Per realizzare questo ambizioso piano si avvalse della collaborazione di un personaggio assolutamente geniale, Michele Canzio (1787-1868), scenografo del teatro Carlo Felice, oltre che pittore e architetto, il quale riversò qui tutto il suo estro creativo.

Il  risultato finale è un luogo nel quale nulla è stato posto a caso, ma dove, al contrario, le centinaia di piante, le architetture, gli ornamenti, le grotte e i laghetti acquistano un significato ben preciso: persino lo stesso sfondo del golfo di Genova ad un certo punto diventa una quinta naturale necessaria per lo svolgimento della trama.

Un percorso iniziatico "in tre atti"

Ne emerge un complesso sistema che va interpretato come una sceneggiatura in tre atti di quattro scene ciascuna, più un prologo iniziale: si comincia varcando il cancello, sorvegliato da due cani ringhianti, nel quale ci si trova subito immersi nel “Viale gotico”, un fitto boschetto che ricorda la selva oscura dantesca. Di fronte si trova la “Tribuna gotica”, simbolo di una elevazione spirituale a cui l’uomo dovrà tendere immergendosi nel percorso.     
Seguendo questo piccolo bosco si giunge ad una prima costruzione di stampo neoclassico, la “Coffee house” da cui si accede ad un elegante viale che ricorda quello dei boulevard parigini dell’Ottocento: lo stacco non può essere più netto rispetto allo scenario silvano precedente; qui non è più la natura a farla da padrone, ma è la civiltà nella sua forma più compiuta, definita attraverso architetture eleganti, siepi ben curate e un rigoroso gioco prospettico (la fontana che si presenta in mezzo al viale è in realtà collocata a circa tre quarti del percorso, di modo da farlo apparire molto più lungo).

L’ambiente in questione, che termina con un Arco di Trionfo, costituisce l‘Antefatto, l’inizio del racconto vero e proprio, che si chiude con la possibilità, per il visitatore, di ritornare indietro alla propria vita quotidiana, o di intraprendere il viaggio verso una nuova realtà ed un cambiamento interiore, così come indicato anche dalla scritta latina sopra l’Arco.

Se si decide di varcarlo, la scenografia cambia di nuovo, e di nuovo ci si immerge in un paesaggio boschivo.

E’ l’Atto I, nelle cui quattro scene (il Romitaggio, l’Oasi mediterranea e il Viale delle Camelie, il Lago Vecchio e la Sorgente) il viaggiatore ha modo di conoscere le diverse sfaccettature della Natura, dalle foreste di agrifoglio alle specie tropicali, fino ad arrivare all’Orrido, dove questa appare nella sue forma più selvaggia e primitiva, rappresentato dalla forza di una cascata che si getta impetuosa nel bacino sottostante.


viridario

Da notare che tra le diverse “scene” di questo Atto era poi possibile scorgere anche un piccolo parco dei divertimenti, un’oasi di svago (successivamente spostata dalla figlia di Pallavicini, Teresa poco oltre il Mausoleo del Capitano) con i veri giochi che si usavano nel XIX Secolo, mentre le acque che scorrono in questo contesto, nonostante l’apparente naturalezza, furono qui portate realizzando appositamente un acquedotto di circa otto chilometri tutt’ora in funzione.


Castello del Capitano

Le forme impetuose della cascata tornano ad essere più composte salendo sulla rupe soprastante, dove si trova la Sorgente, con cui si conclude il I Atto: così come le sue acque sono limpide, anche l’animo è ora stato ripulito dall’incontro benefico con la Natura, e il visitatore può ora affrontare con un altro spirito ciò che gli viene offerto nell’atto successivo, avente per tema il Ritorno alla Storia.

Qui la Natura non è più la protagonista: lo scenario cambia ancora con la presenza di opere architettoniche dalle reminiscenze medievali: la Cappelletta di Maria, la Capanna Svizzera (andata perduta, che doveva simboleggiare il feudo), il Castello del Capitano e il Mausoleo del Capitano.

Questo atto è forse uno dei più complessi per le tematiche che tocca: si tratta di una riflessione sul destino degli uomini, sul potere e sulle glorie terrene, per le quali sono disposti a rinunciare ai benefici della Natura.

E’ per inseguire queste vanità che continuano perennemente a combattere e a distruggersi a vicenda, come dimostrano le mura sbrecciate del Castello e addirittura i ruderi di una costruzione che sorge su una collina di fronte al parco, un cascinale che Michele Canzio fece acquistare per adibirlo a “maniero del nemico” e che da allora è rimasto appositamente in quella condizione.

La conclusione logica di questo atto è costituito appunto dal Mausoleo del Capitano, progettato ispirandosi a quello di Cangrande della Scala a Verona, che conterrebbe appunto le spoglie del condottiero, circondato nei pressi dalle tombe dei suoi soldati: se questa è la fine inevitabile, le lotte e la fama ottenuti in vita a cosa sono serviti?


Mausoleo del Capitano

Dopo questa scena il cammino, che nell’Atto II è stato fatto quasi tutto in salita, comincia a discendere verso le Grotte, con i quali si apre l’ultimo capitolo del racconto, dedicato alla Catarsi.

Le quattro scene sono appunto le Grotte, quindi  il Lago Grande, i Giardini di Flora e la Rimembranza: la fine della vita terrena porta sì agli Inferi, ma questi non sono considerati come un luogo di dannazione e disperazione, bensì come un passaggio necessario verso il Paradiso, presentato nelle due scene centrali.


Ingresso alle grotte

Oggi non sarebbe per ovvie ragioni possibile, ma le grotte di Villa Pallavicini furono costruite all’epoca prelevando da altre, autentiche, stalattiti e stalagmiti che qui vennero ricomposte, e il passaggio all’interno avveniva solamente mediante una barca, alla cui guida un Caronte aveva il compito di traghettare fino al Lago Grande. Purtroppo per ragioni di sicurezza questo effetto scenico viene ora proposto solamente in particolari occasioni.

Anche però raggiungendolo a piedi, lo spettacolo offerto al visitatore è assolutamente meraviglioso.


Tempio di Diana

Si tratta di un lago placido, circondato da alcuni manufatti che simboleggiano le varie etnie della Terra (il Ponte Romano, il Chiostro Turco, la Pagoda, il Ponte Cinese e l’Obelisco Egizio) mentre al suo centro è posto un tempietto neoclassico, il Tempio di Diana, a testimoniare la presenza e lo splendore di Dio. Dietro il Tempio, si può scorgere una cascata, che conduce qui, infine, l’acqua che era stata vista nella Sorgente alla fine dell’Atto I.

Il percorso nel Paradiso e le sue suggestioni prosegue anche nel Giardino di Flora, dove la Natura torna ad essere protagonista: non più in modo selvaggio, ma attraverso forme più armoniche e composte. L’ambiente è costituito da due spazi, ovvero il Giardino dell’Approdo e il Viridario: quest’ultimo in particolare, che circonda un  tempietto ottagonale,  è il luogo dove Flora coltiva le piante in inverno, per consentire la continuità della vita sulla Terra, e presenta al centro una statua della Silfide alata, un’altra allegoria a simboleggiare lo Spirito della Natura.


Tempio ottagonale

La sua collocazione non è, ovviamente, causale, ma si pone in perfetto asse visivo con l’Obelisco Egizio della scena precedente, antico simbolo di rinascita e resurrezione.
E la continua rinascita della Natura è altresì richiamata dalla forma ottagonale (l’otto è il simbolo dell’infinito) del tempio neoclassico e dalle sue decorazioni, dedicate in particolare all’amore tra la stessa Flora e Zeffiro, il vento necessario a consentire l’impollinazione dei fiori e, di nuovo, la prosecuzione della vita.

L’ultima scena della Catarsi è rappresentata infine dalla Rimembranza; l’uomo si trova ancora una volta ad affrontare la Morte, ma con uno spirito completamente diverso da quello simboleggiato dal Mausoleo del Capitano: è la morte dell’Uomo Giusto, che ha lasciato la vita non prima di aver disseminato azioni esemplari per i suoi simili.

L’immagine viene espressa dal busto del poeta savonese Gabriello Chiabrera (1552-1638) , inserito in uno spazio commemorativo a cui si accede saltando necessariamente un sottile rigagnolo d’acqua, a sottolineare l’esiguità della distanza tra la dimensione terrena e quella spirituale.


Rimembranza

E’ con questa rinnovata consapevolezza che lo spettacolo si avvia alla sua conclusione: l’attore/visitatore attraversa l’Esodo, vagabondando tra giochi d’acqua e un bosco di lecci, dove è possibile incontrare anche la grotta del coccodrillo, dove una scultura di questo rettile, a grandezza naturale, è raffigurata intenta ad aggredire i cuccioli di un’aquila. Questa scena è del tutto slegata rispetto alla rappresentazione appena vissuta, ed è probabilmente quanto rimane del precedente giardino all’inglese voluto da Clelia Durazzo.

Terminato questo complesso viaggio, da cui si esce davvero con la sensazione di aver visto e vissuto qualcosa di unico, non restano che alcune annotazione storiche: alla morte del marchese, l’intero complesso passò alla già citata figlia, Teresa che, salvo alcuni lavori, ne mantenne intatta la struttura e la sua natura di attrattiva per la cittadina di Pegli.
Alla sua morte, avvenuta anche in questo caso senza eredi, il complesso venne ereditato dal nipote, Alessandro, per essere infine ceduto nel 1928 dalla vedova, la marchesa Matilde Giustiniani, al comune di Genova.


Macchia mediterranea per Romitaggio

Il parco subì un periodo di parziale degrado nel corso degli anni Sessanta del Novecento, quando furono realizzate, immediatamente al di sotto, le due gallerie dell’autostrada; rimase chiusa a lungo, fino a quando, a partire dal 1985, si incominciò di nuovo a studiare la sua riapertura. In seguito ai  lavori di restauro e consolidamento,  la parte bassa venne riaperta ufficialmente nel 1992.

Il percorso era però ancora monco di quasi tutto l’atto II, con il Castello e il Mausoleo del Capitano inaccessibili. Si è dovuto attendere il 2007 perché una nuova serie di interventi consentissero il recupero anche di questa parte, un recupero che ha riguardato l’intero apparato boschivo oltre che il sistema di raccolta e canalizzazione delle acque.
Questi lavori consentono ora la piena fruizione della Villa e, come già detto, le sono valsi il titolo di “Parco più bello d’Italia” nel corso del 2017.

Si tratta di un titolo assolutamente meritato, per le sue infinite suggestioni, e che  forse è destinata  a ricevere anche negli anni successivi.

 

 



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